La "guerra dei colori"
- Mente Fotografica
- 30 mar 2020
- Tempo di lettura: 4 min
La scoperta del colore, come abbiamo visto nell’articolo precedente ha ottenuto già dalla sua nascita un ampio consenso. Con l’Autochrome il colore inizia ad inserirsi nella quotidianità. L’arte fotografica inizia a tingersi di realtà, agli occhi del pubblico la fotografia inizia a rispecchiare il vero. Si rivela e si fa apprezzare in tutto il mondo complice anche il dilagare delle nuove apparecchiature fotografiche, sempre più alla portata di tutti e non alla sola cerchia benestante della società.
Il bianco e nero dei dagherrotipi, inizia a prendere colore, d’altronde cosa ci si aspettava?!? La fotografia è l’evoluzione tecnologica della pittura e non poteva rimanere incolore per sempre.
Ma niente può essere più sbagliato di tutto quello appena detto. L’insinuarsi nella società della fotografia a colori è dovuto solamente alla mera novità e all’estro imprenditoriale dei fratelli Lumière. La facilità di ricavare fotografie a colori dagli apparecchi già in possesso fu uno dei motivi della rapida diffusione della fotografia a colori, nonché la cultura pittorica ancora presente, nella quale il colore e le sue sfumature dettavano l’intensità e la veridicità dell’opera stessa.
Con la Kodachrome poi ebbe la sua piena diffusione.
Infatti la Kodak fu una delle prime aziende che hanno permesso la diffusione e globalizzazione della fotografia nella società a cavallo tra la fine dell’ ‘800 e l’inizio del ‘900, dando alla fotografia l’aspetto commerciale che tutt’oggi possiamo vedere.
Con il colore alla portata di tutti, il bianco e nero è stato pian piano relegato e messo da parte, utilizzato da pochi estimatori. Rivalutato e comunemente utilizzato però da tutti i grandi fotografi della storia della fotografia.
Inizia in questo senso la “guerra dei colori”.

Un certo Henri Cartier Bresson a proposito del colore diceva:
“Una fotografia buona è una questione di proporzioni, di rapporti tra neri e bianchi.”
esternando inoltre la sua piena convinzione che la fotografia e la pittura non fossero la stessa cosa:
“La fotografia non è come la pittura. Vi è una frazione creativa di un secondo quando si scatta una foto. Il tuo occhio deve vedere una composizione o un’espressione che la vita stessa propone, e si deve saper intuire immediatamente quando premi il clic della fotocamera. Quello è il momento in cui il fotografo è creativo. Oop! Il momento! Una volta che te ne accorgi, è andato via per sempre.”
È questa forse la grande differenza sulle “fazioni” assunte nella guerra: chi vede il bianco e nero come la giusta tonalità per consacrare un’immagine e per coglierne la sua essenza e chi invece vede nel colore la veridicità del mondo, che si mostra a pieno nelle sue tonalità e sfumature.
Il bianco e nero visto come anima della foto, come evocazione della sua essenza. Il colore, reale, la giusta visone del mondo dal quale si possono trarre le sue venature, specchio della visione umana delle cose.
Cosa sia giusto o sbagliato tutt’oggi ancora non si sa, l’unica certezza è che il monocromo è durato fino ai giorni nostri, nella nostra quotidianità sommersi da un mondo colorato, ancora oggi esistono persone che consacrano alla storia immagini prive di tonalità se non quelle del bianco e del nero. Il suo uso oramai è considerato una controtendenza, una differenziazione dalle immagini comuni, un pò come lo è stato il colore all’inizio ma a parti invertite.
Ai giorni nostri però non è una scoperta né la scala di colori né la scala dei grigi, al giorno d’oggi la presenza e l’assenza di colore è dovuta soltanto alla “voglia” dell’autore di presentare così la sua opera.
L’uso del colore e lo studio di esso in fotografia è importante, non per la realizzazione dello scatto in se, adesso con gli infiniti metodi di post-produzione è possibile ottenere tutto, ma per il valore e il significato che vogliamo dare al nostro scatto. L’esserci abituati a vedere il mondo a colori, forse non ci ha permesso di concentrare la nostra mente sulla visione dello scatto stesso, su ciò che vogliamo rappresentare.
Citando sempre Bresson:
“Proprio perché il nostro mestiere è aperto a tutti resta, nella sua allettante semplicità, molto difficile. Per “significare” il mondo, bisogna sentirsi coinvolto in ciò che si inquadra nel mirino. Questo atteggiamento esige concentrazione, sensibilità, senso geometrico.”
oggi l’eterna lotta tra le due concezioni di fotografia basa le sue origini proprio su questo, sul modo di vedere e riconoscere il mondo, ovvero sulla capacità di andare oltre la visione, nel saper guardare.
Detto ciò l’uso dei due metodi non deve essere contestualizzato soltanto nel mero gusto personale del fotografo, ma deve esprimere a pieno il “linguaggio” che vuole utilizzare nella foto per far sì che sia letto in modo adeguato da chi la guarda. La scelta del colore o del bianco e nero deve essere fatta sul metodo comunicativo, su quello che si vuole dire. La distrazione del colore, oppure la sua estrema forza determinano il senso di quello scatto. La nostra affinità con il colore passa anche attraverso il vocabolario: usiamo la parola incolore per descrivere una cosa o una esperienza che risulta noiosa o poco stimolante.
Come già detto prima, non potrò mai dire quale dei due lati abbia ragione, ma vorrei concludere l’articolo soffermandomi sul significato di incolore.
Incolore:
“Corpo che appare alla vista come privo di colore proprio; in senso fig., privo di vivacità, che non suscita interesse, oppure monotono, scialbo, privo di avvenimenti. Riferito a persona che manca di personalità, di carattere o anche di attrattive fisiche”
è da questo che partirei nella nostra personale lotta al colore: cosa vogliamo comunicare?!?! che senso ultimo ha il nostro scatto?!? cosa rappresenta drammaticità o vitalità?!?
Pensiamo a tutto questo e prendiamoci il tempo dovuto prima di premere quel pulsante, perché la scelta del colore o del non colore l’abbiamo già nella nostra mente, basta saper guardare!!
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