Un "istante" a colori
- Mente Fotografica
- 29 mar 2020
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Ventidue anni dopo l’ufficialità del dagherrotipo, la fotografia tenta di cambiare aspetto.
Fino a quel momento la fotografia era prevalentemente in bianco e nero. Le prime “fotografie a colori” erano sostanzialmente dagherrotipi ai quali a fine processo veniva applicato a mano tonalità di colore.

Grazie a James Clerck Maxwell il colore entra nella storia della fotografia. Nei suoi esperimenti, partiti nel 1861, Maxwell utilizzò la teoria additiva sviluppata da Thomas Young e raffinata dallo scienziato tedesco Hermann von Helmholtz.
Questa teoria additiva era basata sul principio secondo cui tutti i colori della luce possono essere mescolati otticamente combinando, in proporzioni diverse, i tre colori primari dello spettro: rosso, verde e blu (RGB). Solo due colori primari possono essere mescolati in varie proporzioni per produrre molti colori di luce. Quando tutti e tre i colori primari della luce sono combinati in uguali quantità il risultato è la luce bianca. Quando la luce bianca viene fatta passare attraverso un filtro di colore primario (RGB), il filtro trasmette solo quel particolare colore della luce e assorbe gli altri colori.
Maxwell commissionò al fotografo Thomas Sutton la produzione di un'immagine a colori. Sutton fece quattro — non tre come comunemente creduto — singoli negativi in bianco e nero di un nastro tartan, attraverso diverse esposizioni, proiettandole attraverso fluidi (filtri) colorati: blu-viola, verde, rosso e giallo. Da ogni negativo vennero fatti due positivi in bianco e nero. Questi positivi, tranne il giallo, vennero proiettati a registro (tutte le immagini perfettamente allineate) su uno schermo bianco da apparati separati, chiamati proiettori lanterna o “lanterne magiche”, con ogni diapositiva veicolata attraverso lo stesso filtro colorato, usato per fare il negativo originale.
Quando tutti i tre positivi furono sovrapposti contemporaneamente su uno schermo, il risultato fu un'immagine proiettata a colori (non una fotografia) del nastro tartan multicolore.
Anche se all’inizio, solo sotto forma di esperimenti, Maxwell non riuscì concretamente a realizzare le prime fotografie a colori, i suoi esperimenti spianarono la strada agli studi successivi.

Nel 1891 Gabriel Jonas Lippman riesce ad ottenere la prima fotografia a colori stabile, grazie al suo metodo interferenziale. Egli introdusse un processo di colore basato su principi di interferenza della lunghezza d'onda che non faceva uso di coloranti o pigmenti, che aveva eccellenti proprietà nel processo di archiviazione. Nella fotocamera, la piastra di emulsione è stata posta a contatto con uno specchio di mercurio liquido, rivolto verso l'obiettivo. La luce attraversava la piastra e veniva riflessa dal mercurio, producendo un'immagine latente del pattern di interferenza sulla piastra. Lippmann riuscì a produrre una lastra fotografica a colori sfruttando l'interferenza delle onde dell'immagine con la loro stessa riflessione su uno specchio di mercurio posto dietro l'emulsione sensibile. Ogni raggio di luce impressionava l'emulsione in punti la cui distanza è legata alla sua lunghezza d'onda, dunque al suo colore. Anche se i colori potevano essere sorprendentemente reali, il processo era poco pratico per uso commerciale perché richiedeva precisione scientifica, osservazione estremamente lunga, metodi complessi e tempi di esposizione.
Questo processo gli valse il premio Nobel per la fisica.
Il suo metodo però è considerato una pietra miliare per il futuro sviluppo dell'olografia.
Per semplificare il processo, nel primo decennio del Novecento, aziende come la Sanger Shepherd in Inghilterra cominciarono a fabbricare “Repeating Back”, che permettevano al fotografo di fare esposizioni separate di un soggetto statico – ogni volta attraverso un filtro colorato diverso – che successivamente venivano combinate per formare una singola immagine a colori. Poi seguirono le fotocamere "One shot" che utilizzavano lastre in bianco e nero per fare contemporaneamente tre esposizioni del soggetto stesso attraverso tre filtri di colore separati.

A Lione, in Francia, Auguste e Louis Lumière, inventori del primo proiettore cinematografico, nel 1904, brevettarono un importante passo avanti nella realizzazione di fotografie a colori. L'Autochrome Lumière fu il primo processo fotografico-colore commercialmente fattibile e ampiamente usato.
Introdotto sul mercato nel 1907, rimase in produzione fino al 1935. L'Autochrome era un processo di inversione, che produceva un'immagine unica, una trasparenza positiva su un supporto di vetro che veniva visualizzato in proiezione o attraverso una fonte di luce trasmessa. Per mantenere un equilibrio di colore adeguato, un filtro giallo intenso venne disposto davanti alla lente della fotocamera. Dopo lo sviluppo, la piastra era ri-esposta alla luce e finalmente riqualificata per formare una trasparenza positiva costituita da minuscoli puntini di colori primari.

L'Autochrome sfruttava la capacità dell’occhio umano di miscelare i colori, in modo molto simile al puntinismo di George Seurat nel quadro “Una domenica pomeriggio sull'isola della Grande Jatte”, per rendere un'immagine positiva al colore.
Utilizzato dal 1907 al 1935, l'Autochrome ha avuto i suoi limiti, ma i vantaggi di questo processo, tuttavia, erano numerosi. Le autocromie potevano essere utilizzate con qualsiasi fotocamera con l'aggiunta di uno speciale filtro giallo-arancio; l'immagine era realizzata con una sola esposizione, non con tre. Anche se costoso, il prezzo non era eccessivamente proibitivo; tutto questo consentì anche ai dilettanti un accesso molto più facile al colore; anche se i colori non erano accurati, producevano una calda, morbida e invitante immagine pastello che le persone consideravano abbastanza piacevole.

La prima guerra mondiale è stato il primo grande conflitto ad essere raccontato dalla fotografia a colori.
Le Autocromie divennero la base per pubblicazioni quali l'Histoire illustrée de la guerre del 1914. Alla fine della prima guerra mondiale, riviste come il National Geographic usarono autocromie per effettuare riproduzioni di colore, per la prima volta nella loro storia.
Tra il 1914 e il 1938, il National Geographic pubblicò 2.355 autocromie, più di qualsiasi altro giornale, assumendo così un ruolo di leadership nel mettere il "realismo" della fotografia a colori a disposizione della massa. Autochrome fu il primo processo di colore a superare la fase della novità e ad avere successo nel mercato. Infranse un grave ostacolo estetico in quanto fu accettato e preso sul serio per le sue potenzialità nel fare foto. Questo permise ai fotografi di iniziare ad esplorare le possibilità visive, di fare fotografie con colori significativi per progetti ambiziosi. Come possiamo vedere l’insinuarsi del colore nella fotografia non è stato del tutto facile, ma è arrivato dopo numerosi studi ed esperimenti per essere poi perfezionato e commercializzato a pieno a partire dagli anni ’30 del ‘900.
Il colore ha rivoluzionato il modo di concepire la fotografia, ha dato vitalità e realismo agli scatti, mettendo da parte almeno per un pò la purezza del bianco e nero.
Tutt’oggi il colore divide il modo di pensare e concepire la fotografia. Non possiamo dire quale sia giusto o sbagliato o quale sia puro o meno. Lascerò parlare per me, i grandi della storia della fotografia:
“Il bianco e il nero sono i colori della fotografia. Per me simboleggiano le alternative di speranza e disperazione a cui l’umanità è sempre soggetta.” R. Frank
“Il mondo è a colori, ma la realtà è in bianco e nero. “ Wim Wenders
“Il colore dedrammatizza… il bianco e nero è più carico di sensi.” J. Baudrillard
“In ogni caso, sfocata o meno, nitida o meno, una fotografia buona è una questione di proporzioni, di rapporti tra neri e bianchi.” H. C. Bresson
Con queste massime vi lascio riflettere su quanto sia stata importante la scoperta del colore e su come per molti la purezza della foto implica l’assenza di esso.
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